Spesso mi chiedono cos’è una comunicazione emozionale.
La prima riposta che mi viene è sticky. Incollata. Appiccicosa. Insomma una cosa ti rimane attaccata.
Quella da cui non torni indietro.
Quella che usa parole e immagini che ti inchiodano.
Ragionevolmente Quella che ti chiede e riesce a produrre (anche) un cambiamento.
Sappiamo bene quanto sia più difficile generare cambiamenti se usi informazioni algide, seppur verissime e scientificamente comprovate.
E quanto sia quasi impossibile produrre cambiamenti elargendo solo consigli, seppur ricchi di buon senso.
Tuttavia l’incipit di questa riflessione non vuole essere un inno al pessimismo: sono certa saremo capaci di trovare le emozioni migliori da innescare per attivare nuovi comportamenti.
Questa breve riflessione nasce invece dalla scoperta di un singolare studioso americano: Drew Westen.
The political brain
Westen ha scritto “The political brain”, uscito in prima edizione nel 2007 in Usa, che è di fatto una SINTASSI del discorso politico efficace, in quanto in grado di toccare le emozioni dei votanti fino al successo.
Persino Bill Clinton si è scomodato nell’affermare che questo “è il più interessante testo in circolazione e i suoi suggerimenti su cosa il candidato dovrebbe dire e dovrebbe aver detto, dovrebbero esser letti da chiunque voglia capire la moderna politica americana”.
Ma aldilà degli eventi in Usa, ciò che Weston ci dimostra, attraverso la disamina e il giudizio su una ricca serie di argomenti trattati con linguaggi diversi da candidati diversi, è che il terreno politico elettorale non è un mercato della ragione, bensì delle emozioni.
Se riesci a toccare la pancia di chi ti ascolta avrai più riscontri di chi afferma concetti sensati senza arrivare alla pancia.
Avete quindi già capito che il mio pensiero va anche alla sostenibilità e al suo bisogno di forme (oltre che contenuti) adeguate quando chiede nuovi comportamenti….ma sono sicura che questo voi lo sapete già.
Il potentissimo bias della conferma
Nel libro di Westen il racconto di un esperimento sul bias della conferma mi ha colpito.
Durante le elezioni del 2004 lui e due suoi colleghi (Stephan Hamman e Clint Kilts) hanno scannnerizzato il cervello di 15 attivisti Dem e 15 repubblicani ponendoli di fronte a 6 serie di affermazioni, con evidenti incoerenze, formulate da Kerry e Bush e poi da una figura maschile neutrale (che serviva a fare da gruppo di controllo per verificare se il target era capace di pensare in modo neutrale).
L’obiettivo del test era capire cosa succede nel cervello quando si attiva una tempesta emotiva da evidenze (il candidato tal dei tali ha detto…..ecc) che confliggono con i propri desiderata.
Loro speravano di imparare come in tempo reale il cervello negozia i conflitti tra info oggettive e desiderio.
Ebbene da questo esperimento impararono ben di più.
Una volta appurato che il target sapeva ragionare neutralmente (su enunciazioni neutre del gruppo di controllo), scoprirono che l’attivazione del bias della conferma eccita il nostro cervello.
Quando infatti l’attivista trova un modo per razionalizzare e quindi spiegare le affermazioni contraddittorie del proprio beniamino (qui entra in gioco infatti il bias della conferma) non solo si spengono le reti neurali coinvolte nelle emozioni negative ma si accendono i circuiti delle emozioni positive.
Trovare giustificazioni e costrutti mentali per difendere i nostri punti di vista senza quindi metterli in discussione o cambiarli è più forte dell’evidenza reale.
Questo ci dice quindi che per portare cervelli da un’altra parte la logica impietosa di una contraddizione non basta.
Serve tirare fuori dal cassetto le emozioni, sperando che arrivino al nostro cervello e ai suoi meccanismi decisionali innescando qualcosa di nuovo e di buono.
E allora lunga vita al nudge!!