Ero a Roma un po’ di settimane fa con Valentina Cipriano. Non ci vedevamo da diversi mesi e avevamo in agenda una visita da Okidoki, da lei organizzata con parecchia curiosità da parte mia.
Ci ha subito colpito l’insegna: curata, allegra e condita da parole inequivocabili (per noi due).
“Apri il tuo armadio, portaci i capi più belli.
Noi li vendiamo per te
Solo capi già amati”
Ci scambiamo un’occhiata, sbirciamo dentro e vediamo colori, luce, ordine e nulla di arruffato all’orizzonte.
Tutto ciò che lì si vende è perfetto, nessun filo tirato, nessuna macchia o alone in agguato, scarpe che sembrano nuove, accessori, cinture, piccola bigiotteria.
E così conosciamo le “due ragazze” che lo gestiscono. Hanno entrambe la passione per il vintage e i mercatini dell’usato, li frequentano da sempre ed è come se avessero fatto un master in cultura pop. Era diventato un sogno segreto gestire uno shop di vintage …e magari non riuscivano a confessarselo per poi invece fare il salto. È dovuto arrivare il covid, con le conseguenti riflessioni su vita, lavoro e futuro, per innescare piano piano la decisione di intraprendere questo cammino.
È aperto da settembre 2022 e tutto ciò che c’è lì dentro è Preloved (ben più raffinato del seconda mano), dagli arredi agli oggetti in vendita.
Come funziona?
Okidoki è un franchising che nasce a Prato da un’idea di una imprenditrice che a partire dal 2021 cresce e diventa un network ad oggi di 16 punti vendita.
L’idea non è originale: dare un futuro ad abbigliamento usato di qualità.
Prodotti lavati, quasi immacolati, mai poliestere, tessuti solo naturali.
Si parte da quello che giace nei nostri armadi, che spesso dimentichiamo o non riusciamo ad indossare per i motivi più diversi. Eppure liberare spazio per fare spazio al nuovo è fondamentale…e così le due ragazze avviano l’attività iniziando con il vendere i propri vestiti.
E la formula funziona, e il passaparola idem.
Perché il buffering avviene grazie a chi passa, si ferma, entra, compra (o anche no) e scoprendo che si può portare i propri capi ci ritorna per venderli. E magari compra anche qualcosa…perché la febbre da shopping (si sa) è inesauribile.
Ovviamente i capi portati vengono selezionati, si concorda un prezzo e poi nei mesi successivi, se resta invenduto, quel prezzo scende.
Il meccanismo per ora sta girando senza aver ancora speso un euro in pubblicità e le due ragazze non hanno alcun rimpianto per il lavoro che facevano prima.
Il loro futuro è qui.
E ci dicono con un sorriso tenerissimo che ogni volta che arriva un sacchetto di nuovi prodotti è come scartare un regalo. C’è sempre un’inguaribile desiderio di scoprire gli ex sogni di qualcuno che diventano piccoli sogni per qualcun altro.
E quegli ex sogni vengono raccontati da chi porta i capi: i loro clienti “fornitori” vogliono spiegare dove hanno comprato quella borsa o quel vestito, quando, con chi e perché lo hanno scelto e indossato, ed anche perché se ne allontanano o anche a chi era appartenuta/o.
Avete mai pensato che forse siamo l’ultima generazione che collega gli acquisti reali a dei ricordi familiari?
Scherzando le due ragazze dicono che stanno diventano il banco psicologico del quartiere (un vero posto di s-blocco), un luogo dove cioè le persone senza fare troppa strada trovano qualcuno a cui raccontare le storie dei loro vestiti, che di fatto sono le loro storie.
Tutto ciò arricchisce il valore della loro attività che si inserisce nel quartiere e da esso trae e trova forza.
E allora hanno deciso di raccogliere queste storie e munire di etichetta Qr code i capi con storytelling.
Riusciranno questi a trovare più facilmente dei compratori? Sarebbe un test utile.
Che mi richiama alla mente l’operazione di Celia Pym che in una performance al V&A a Londra ha riparato per giorni capi di sconosciuti solo a condizione che le venisse raccontata la storia.
Ma tornando a Okidoki, la loro magia sta nel riuscire a parlare alle persone, raggiungere il cuore di chi cede e provare a raggiungere il cuore di chi compra.
Vogliamo chiamarlo nudge?
Lo è nella misura in cui quel banco diventa un “posto di sblocco” che innesta ingredienti non solo funzionali ma di natura emotiva (vedasi la comunicazione sul Già amato e lo storytelling ammesso) e quindi in grado di agire sulla nostra disponibilità a cedere (oltre che a comprare) senza fare leva solo sulle motivazioni economiche.
Quello store attiva il piacere del dono e della ridestinazione funzionale che per molti ha più significato del ritorno economico.
Quel negozio è costruito perfettamente per innescare azioni virtuose (di cessione e acquisto usato) perché è accogliente, pulito, rispettoso verso i capi esposti, strizza l’occhiolino ai trend modaioli, non ti fa sentire povero, non parla agli ultimi.
Parla davvero a tutti.
Quindi funziona perché in grado di spingerci a cedere (oltre che a comprare), favorisce la sottrazione invece che solo l’accumulare, spesso senza senso.
In logica nudge si può migliorare?
Quasi sempre un’azione del genere è migliorabile. In questo caso io userei l’ingrediente del timely e proverei a coinvolgere le persone con una comunicazione che faccia uso della norma sociale.
Ma forse non serve, perché funziona già bene così.